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martedì 16 giugno 2009

Sentenza 11\3\2005 relativa alla responsabilità penale solidale tra medici ed infermieri per evento morte del paziente

Cari colleghi, il nostro Avvocato dott. Maurizio Danza mi ha inviato questa interessantissima sentenza relativa alla responsabilità penale solidale tra medici ed infermieri per evento morte del paziente dovuto secondo la Cassazione al deserto assistenziale dell'intera struttura sanitaria. Essa si basa sull'obbligo di garanzia del malato che incombe ormai, quale principio costituzionale della tutela del diritto alla salute( ex art 32 della Cost) e secondo consolidata giurisprudenza su chiunque sia all'interno delle strutture e su tutto il personale sia medico che paramedico( come lo definisce ancora erroneamente la Cassazione).La Suprema Corte richiama la notissima pronuncia Franzese del 2002 che rappresenta ancora oggi rappresenta la pietra miliare per la ricostruzione del rapporto di causa ed effetto in materia di responsabilità sanitaria penale.


CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
SENTENZA 1° DICEMBRE 2004 - 11 MARZO 2005, N. 9739
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 3 luglio 2000 del tribunale di Bari in composizione monocratica, D.
Antonio, G. Giuseppe, L. Annalinda, P. Dora e C. Damiana venivano assolti con la formula
“perché il fatto non sussiste” dal reato di cui agli articoli 113, 589 Cp loro ascritto perché
“per colpa, consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, cagionavano la morte di S.
Michele, avvenuta in Bari il 7 novembre 1995, per arresto cardiacocircolatorio terminale in
soggetto affetto da shock infettivo a ipavolemico” ed in particolare “il G. quale medico di
guardia interdivisionale (dalle ore 20 del 6 novembre 1995 alle ore 8.00 del 07 novembre
1995) presso l’istituto Policattedra di chirurgia d’urgenza, chirurgia plastica e chirurgia
ricostruttiva dell’Università di Bari-Policlinico, la L. quale medico tirocinante nel reparto di
chirurgia plastica (presente nel corso dello stesso turno), la P. e la C. quali infermiere
professionali presso il citato reparto nello stesso turno, omettevano di controllare i
parametri vitali del paziente S. Michele. Il ricoverato a seguito di ustioni di primo e secondo
grado e sottoposto a due interventi chirurgici (il primo di escarectomia della regione
posteriore delle cosce e riparo con innesti dermo-epidermici, effettuato il 4 ottobre 1995 ed
il secondo di escarectomia tangenziale delle gambe e della regione lombare, riparata con
innesti cutanei prelevati dagli arti superiori e dai glutei, eseguito il 6 novembre 1995 dalle
ore 17.00 alle ore 21.00), che evidenziavano lo stato di shock, omettendo
conseguentemente di intervenire tempestivamente e rendendo pertanto irreversibile la
sindrome in atto che conduceva alla morte; il D., quale chirurgo che aveva eseguito
l’intervento del 6 novembre 1995, per aver posto in essere le condizioni che causarono
l’esito infausto dell’intervento, omettendo tra l’altro. di chiedere una preventiva consulenza
anestesiologica, e per aver omesso da un lato di tenere anch’egli sotto diretto controllo il
decorso post operatorio del paziente, nonostante si fosse in presenza di un intervento
delicato e di urgenza, e dall’altro, di vigilare affinché il personale medico e paramedico del
turno sopra indicato controllasse i parametri vitali del S.”.
Il Tribunale, premesso che il capo di imputazione non spiegava neppure in che modo ed in
quale misura l’omesso controllo dei parametri vitali avesse esplicato efficienza causale
sull’evento, perveniva alla assoluzione dì tutti gli imputati in forza della considerazione che
mancava qualsiasi prova del necessario nesso eziologico tra la condotta omissiva
contestata a medici ed infermiere ed il decesso dei paziente affidato alle loro cure.
Avverso detta sentenza proponevano rituale e tempestivo appello il Pg ed il patrono delle
parti civili costituite, svolgendo motivi di doglianza in parte comuni e chiedendo la riforme
della impugnata sentenza.
Nel corso del battimento di secondo grado veniva disposta perizia medico legale intesa ad
accertare quali erano state le cause della morte del S. e se tempestivi ed appropriati
interventi terapeutici avrebbero potuto evitarne la morte; i periti venivano autorizzati ad
acquisire il “diario infermieristico” della notte del decesso e dei giorni immediatamente
precedenti e successivi che però non fu possibile ottenere. Acquisita la documentazione
depositata dalle parti e sentiti i periti ed i consulenti di parte, la Corte di appello
pronunciava sentenza con cui riconosceva la responsabilità di D. Antonio, G. Giuseppe, P.
Dora e C. Damiana, condannandoli, in concorso di attenuanti generiche, alla pena di mesi
quattro di reclusione ciascuno, oltre che al risarcimento dei danni in favore delle parti civili
alle quali assegnava una provvisionale ed al rimborso delle spese di lite. Assolveva L.
Annalinda per non aver commesso il fatto.
La Corte ricostruiva con precisione la sequenza degli avvenimenti che precedettero il
decesso del S. ponendo maggiore attenzione a quanto si era verificato dopo il secondo
intervento operatorio, atteso che fino ad allora il trattamento del paziente era risultato
regolare. Il S., di anni 46 era stato ricoverato a seguito di un infortunio domestico nel quale
riportò ustioni estese a circa li 50% della superficie corporea e sottoposto in data 4 ottobre
1995 ad un primo intervento chirurgico, e ad un secondo, quello in esame, il 6 novembre
1995; a tale secondo intervento era giunto in condizioni sostanzialmente buone tanto che
l’anestesista che lo visitò giudicò che l’intervento avesse un grado di rischio inferiore a
quello precedente. L’operazione ebbe luogo nel pomeriggio, con inizio alle 17.15 e fine
alle 20.20 (ora della estubazione); tutto si svolse regolarmente ed all’esito l’anestesista
ordino di eseguire un controllo radiografico del torace e gli esami urgenti post operatori
all’arrivo in reparto: controllo ed esami che non vennero prontamente eseguiti. Il D.
prescrisse una terapia farmacologia, tramite flebo, che non venne compiutamente
somministrata (solo una flebo risulta essere stata effettuata e neanche completata); non
venne effettuato alcun controllo del polso, pressione e temperatura.
Nel corso della notte le due donne più volte sollecitarono il personale paramedico,
dapprima segnalando che il gocciolamento della flebo era lento, che dopo il precedente
intervento era stata fatta una trasfusione ematica ed erano stati somministrati più liquidi
per via venosa ed albumina, poi richiamando l’attenzione sul fatto che il paziente accusava
brividi, sudorazione e conati di vomito nonché sulla scarsezza di urine contenute nella
sacca, rimasta immutata dal momento in cui il paziente era stato riportato in reparto; esse
sollecitavano anche l’intervento di un medico, ma sempre ricevendo risposte volte ad
assicurare la regolarità del decorso post operatorio e il suggerimento di aumentare le
coperte (fino a giungere a otto) e di inumidire le labbra del paziente. Verso le sei del
mattino la moglie del S. misurava la temperatura corporea del marito, che ad una prima
misurazione risultava dì 36 gradi e poco dopo di 35. Nel frattempo era giunta la L. (medico
tirocinante) che controllò il ritmo cardiaco del S. e cercò di tranquillizzare la donna, ma il
paziente continuava a peggiorare fino a che verso le sette le infermiere del nuovo turno
trasferirono il paziente nel reparto rianimazione; solo allora sopraggiunse il medico di
guardia interdivisionale, dott. G. Dalla cartella del reparto rianimazione risulta che il
paziente vi giunse “collassato, cute pallida e sudata, polsi periferici e centrali non
apprezzabili, diuresi contratta, in coma, non risponde agli stimoli verbali, risponde in
maniera incoordinata agli stimoli nocicettivi”. Alle otto del mattino, nonostante i tentativi per
rianimarlo, avveniva l’exitus del paziente per collasso cardiocircolatorio irreversibile.
La Corte dava atto di aver effettuato tale ricostruzione sulla base delle dichiarazioni della
moglie del S., che durante la notte era stata costantemente al suo fianco, e della teste
Tarantini Rosetta, infermiera professionale, amica dì famiglia, che delle 21.30 del 6
novembre alle 5.45 circa della mattina successiva si era unita alla moglie nell’assistenza
del S., dichiarazioni ritenute pienamente attendibili sia per la loro precisione e
concordanza, sia perchè confermate dalle annotazioni della cartella clinica redatta al
momento del rícovero del S. in rianimazione, in assenza di un diario infermieristico, mai
acquisito od esibito, nonostante l’espressa autorizzazione ottenuta dai periti non poteva
dunque darsi credito a diverse allegazioni difensive.
I RICORSI
Antonio D. denuncia vizio di motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità
basata solo sul fatto di non aver impartito ferree disposizioni scritte o orale al personale
medico o paramedico cui il paziente veniva affidato, in ordine alla gestione post operatoria.
La stessa sentenza da atto che egli ha bene adempiuto l’intervento operatorio; di quanto
avvenuto successivamente - del “deserto assistenziale” riscontrato dalla sentenza - egli
non può e non deve essere chiamato a rispondere; la situazione critica per il paziente
nasce nel reparto di terapia intensiva, dopo che il D. ha esaurito il suo compito e pertanto
l’adempimento del proprio obbligo di protezione; tutte le (eventuali) macroscopiche, a dire
della corte, inadempienze verificatesi in quel reparto sono assolutamente autonome e da
valutare autonomamente in quanto facenti capo a soggetti cui l’obbligo di garanzia era
stato trasferito, interrompendo il nesso di causalità rispetto a quanto verificatosi
(correttamente) sino a quel momento; non vi è prova che le disposizioni sarebbero state
osservate; la stessa Corte avrebbe riconosciuto che altri erano i soggetti che avevano il
dovere di protezione e sorveglianza del paziente e cioè il personale del reparto di terapia
intensiva dove il paziente era stato trasferito all’esito dell’intervento operatorio, reparto
dove la sorveglianza avrebbe dovuto essere adeguata per definizione. Non sussiste
dunque nesso causale tra il comportamento del D.e l’evento, atteso che se colpa vi fu
questa è solo del personale del reparto. Peraltro nessun rapporto di causalità poteva dirsi
regolarmente accertato in assenza di certezza sulla causa di morte.
G. Giuseppe denuncia violazione dì legge e manifesta illogicità di motivazione in quanto la
Corte di appello - trascurando le conclusione dei periti che avevano ritenuto impossibile
porre una affidabile diagnosi quanto a causa della morte, formulando al riguardo solo
ipotesi ha ritenuto di poter addivenire ad una ricostruzione certa sulla sola base delle
dichiarazioni della parte offesa, in particolare formulando nei confronti del G. un addebito
colposo omesso di controllare i parametri vitali del paziente e pertanto di intervenire
tempestivamente rendendo pertanto irreversibile la sindrome in atto che conduceva il
paziente a morte) che non teneva conto, da un lato, delle conclusioni della perizia secondo
cui il S. al termine dell’intervento operatorio non necessitava di un controllo continuo dei
parametri vitali e, dall’altro, dei compiti del medico di guardia interdivisionale, quali
specificati in un documento che la stesso Corte di appello aveva richiesto ma di cui non
aveva fatto utilizzazione, compiti che sono soltanto dì intervento su richiesta; è pacifico
viceversa che egli non venne mai chiamato dalle infermiere.
Damiana C. denuncia illogicità o mancanza di motivazione per travisamento del fatto.
Elevata al rango di prova una mera ipotesi formulata dai periti (shock ipovolemico a
seguito di un sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale) prendendo a
riferimento solo i sintomi riferiti dalla parte civile M. e dalla teste Tarantini; tuttavia le due
testi non avrebbero dichiarato al dibattimento quello che la Corte di appello ritiene, ed in
particolare che il S. presentava nausea, sudorazione, ingravescente astenia e conati di
vomito, per cui macroscopico sarebbe il travisamento atteso che il secondo giudice
ricostruisce le cause della morte solo sulla base di tali sintomi, sintomi che però
potrebbero desumersi solo dall’esposto presentato dalla M. e dalle sommarie informazioni
rese dalla Tarantini, atti inutilizzabili al fini della prova. Anche l’accertamento relativo al
quantitativo di urine e alle flebo effettuate sarebbe frutto di travisamento. In realtà, come
gli stessi periti hanno riconosciuto, la causa della morte è rimasta ignota e da ciò deriva la
impossibilità di effettuare il giudizio controfattuale; neppure è stato chiarito quale ulteriore
intervento medico sarebbe stato idoneo ad impedire l’evento: l’accertamento del nesso
causale non soddisfa dunque quei requisiti di certezza posti in luce dalla più recente
giurisprudenza.
Dora P. denuncia difetto ed illogicità della motivazione.
Le affermazioni secondo le quali il S. è stato abbandonato a sé stesso e le infermiere di
turno si limitarono a tranquillizzare le due donne che lo assistevano, non facendo niente
per verificare se le loro preoccupazioni avessero fondamento sarebbero smentite dalle
risultanze processuali ed in particolare dal foglio termografico da cui risulta che la
temperatura è stata misurata due volte e che la quantità di urina era di 300 mt;
l’affermazione di essere in presenza dì una diuresi contratta stante l’alterazione della cifra
1 in 3 era solo una mera congettura dell’estensore della sentenza; la sentenza sarebbe
illogica anche nel ritenere che il personale paramedico potesse riconoscere quei sintomi
che debbono essere riconosciuti dal medico. Impossibilità di ritenere accertato il nesso di
causalità non conoscendosi la causa della morte.
Al dibattimento sono state depositate conclusioni dell’Avv. Prof. Fabrizio L. per D., e
conclusioni e nota spese delle parti civili costituite.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi, pur ritualmente proposti, sono infondati.
In via preliminare mette conto escludere la intervenuta prescrizione del reato per le
sospensioni intervenute nelle more del giudizio, già computate alla decorsa udienza del 2
aprile 2004, innanzi a questa Suprema Corte, con provvedimento di sospensione, in detta
udienza, del termine di prescrizione, infatti dette sospensioni, come quella determinata alla
citata udienza del 2 aprile 2004, sono tutte imputabili alla difesa degli imputati, e
determinano il non utile decorso del tempo - nella specifica ottica della prescrizione
secondo l’indirizzo di queste SS. UU. 1021/01, Cremonese.
Nel merito.
Sul ricorso del D. Antonio, va innanzi tutto precisato che egli, nella qualità di capo della
equipe operatoria, fu titolare di una posizione dì garanzia nell’ambito della quale, secondo
quanto accertato dalle precedenti sentenze di merito, risolse imprudentemente di
effettuare un intervento altamente specialistico (quale quello praticato al paziente S.
Michele) nell’ultimo turno pomeridiano, e così nell’approssimarsi della notte: tempo nel
quale, secondo regola di comune esperienza, il presidio medico e paramedico, nei reparti
ospedalieri (anche in quelli organizzati, a differenza di quello dì cui qui si discute, secondo
criteri accettabili), è notevolmente meno allertabile alle emergenze che non nelle ore dei
giorno.
Inoltre egli, concluso l’intervento, nel trasferire la sua posizione di garanzia all’unico
medico di guardia che aveva sotto il proprio controllo il reparto di terapia intensiva,
unitamente ad altri due reparti facenti capo all’istituto policattedra che li raggruppava, non
curò di fornire le necessarie indicazioni terapeutiche e dei controlli dei parametri vitali del
paziente appena operato, né si preoccupò di seguire direttamente - anche per interposta
persona il decorso post operatorio si che il S., abbandonato a sé stesso anche per il
disinteresse sia dell’unico medico di guardia notturno, sia del personale paramedico del
tutto professionalmente incapace ed assente, e sia persino della medico tirocinante dello
specifico reparto ove il paziente era stato sottoposto ad intervento chirurgico, sì spense
rapidamente a causa di un certo shock ipovelmico seguito a sanguinamento massivo da
ulcera gastrica o intestinale, e del probabile e conseguente instaurarsi di un’ulcera
sanguinante forse anche seguita da perforazione.
Il ricorrente ha denunciato l’adozione di un criterio probabilistico nella individuazione della
causa dell’evento, e dunque una violazione dei canoni della più recente giurisprudenza dì
questa Corte a SS.UU. (la pronuncia Franzese dei 30328/02). Per contro deve invece farsi
rilevare che la Corte si è espressa nei seguenti termini: “…le cause della morte sono state
indicate. con apprezzabile grado di assoluta verosimiglianza, scientificamente ancorato ai
dati clinici desunti dalla documentazione sanitaria acquisita. In uno shock ipovolemico a
seguito di sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale”; ed ha anche indicato i
dati oggettivi sui quali la detta ipotesi, formulata dai periti, è stata ritenuta fondata (quali le
possibili cause dell’instaurarsi di tale ulcera). Gli stessi giudici hanno indicato il
versamento endocavitario ed il conseguente shock ipovolemico, dato caratterizzato da
“assoluta fondatezza”, partendo, tra l’altro, dai precedenti valori ottimali di ematocrito (35%
prima dell’intervento).
La mancata pratica della terapia indicata dall’operatore, consistente in 1500 cc di liquidi
nel corso della notte, della terapia farmacologia prescritta, e degli altri presidi
tempestivamente praticabili, solo che fossero stati svolti gli accertamenti “urgenti” prescritti
dall’anestesista, o ritenuti necessari dal controllo medico che in alcun modo può mancare
nella fase post operatoria di un intervento talmente delicato, sarebbero stati tali da
certamente evitare l’evento al quale si è pervenuti attraverso un iter che la Corte di merito
ha descritto e qualificato come di totale abbandono. E ciò solo che l’imputato avesse
“eletto”, al fine di trasferire la propria posizione di garanzia, in maniera adeguatamente
oculata i soggetti che avrebbero dovuto seguire poi il decorso post operatorio del paziente,
nella immediatezza del suo ritorno in reparto, e nelle seguenti ore della notte.
Può dunque affermarsi che, nel caso del dottor D. il rimprovero di non aver usato il
comportamento conseguente alla delicatissima posizione di garanzia che gli era
propria, in vista della fase post operatoria, trasferendo tale posizione ad un reparto
che egli sapeva (o avrebbe dovuto sapere) affidato solo a personale paramedico
(indipendentemente dalla competenza diligenza e scrupolo che costoro
possedessero) certamente non in grado di far fronte all’assistenza di pazienti
appena sottoposti ad interventi di alta chirurgia, ed ad un medico di guardia per
contratto disponibile solo dietro chiamata o “a richiesta”, è stato ineccepibilmente
motivato.
Infatti, in tali condizioni, si può dire che egli ha abbandonato il paziente a sé stesso,
avendo la piena consapevolezza di tale abbandono.
Che poi, da tale situazione di abbandono sia derivata la incredibile mancata pratica delle
cure e somministrazioni di liquidi che lo stesso primario aveva ordinato, e che da questa
sia derivato il progressivo deterioramento delle funzioni vitali del paziente che, avendo
perduto già plasma durante l’intervento (1000 mi), ne continuava a perdere per
sanguinamento da ulcera, sino a pervenire allo shock ipovolemico, è fatto che risulta
chiaramente attraverso la ricostruzione della dinamica degli eventi caratterizzata dalla
totale assenza di assistenza e controllo del malato, pur in presenza di numerose
segnalazioni di dati allarmanti sul decorso post operatorio, da parte della moglie e
dell’amica di famiglia che ne seguirono impotenti il percorso verso l’irreparabile. Ma di tali
successive e gravi omissioni il ricorrente non può valersi quale scusante della propria
condotta omissiva, in quanto vale qui la regola sempre affermato da questa Suprema
Corte e secondo la quale chi versa in colpa non può invocare a propria scusante la
condotta colposa altrui.
In materia, per altro, il condiviso orientamento di questa Suprema Corte è nel senso che
gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti “ex lege” portatori di
una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente
imposto ex articolo 2 e 32 Costituzione nei confronti dei pazienti, la cui salute essi devono
tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; e l’obbligo di protezione
perdura per l’intero tempo del turno di lavoro. (Cassazione penale, Sezione quarta, 2
marzo 2000 n. 9638, Troiano). Si che correttamente la Corte di merito ha ritenuto che il
ricorrente non abbia adempiuto al proprio obbligo nei termini di cui innanzi.
Sul nesso eziologico, ritiene questa Corte integrare sufficientemente l’obbligo della
motivazione imposto al Giudice di merito la sua individuazione nella mancata esecuzione
della radiografia del torace e degli accertamenti prescritti dall’anestesista, nella mancata
indicazione delle necessarie disposizioni “scritte ed orali” al personale medico e
paramedico cui il paziente veniva affidato nella fase post -operatoria, tanto che nulla di
tutto ciò fu praticato al S. né nell’immediato e nemmeno nel corso di tutta la notte.
Da tali omessi controlli e terapie, conseguirono le insorgenze che condussero a morte il
paziente. Omissioni imputabili innanzi di ogni altro al D., a titolo di colpa integrata dal
connotato della imprudenza e della negligenza. Ove tutto ciò non fosse stato omesso,
deduce la impugnata sentenza, l’evento si sarebbe evitato.
La sentenza de qua ha inoltre bene evidenziato che, per altro, egli sapeva bene che -
come prima già indicato - la sua posizione di garanzia non veniva trasmessa a personale
sanitario idoneo a riceverla (e pertanto con culpa in eligendo), ed anzi che veniva trasferita
praticamente a nessuno.
Tale condotta è stata ritenuta idonea a determinare nel paziente quella ulteriore perdita di
liquido ematico che, sommata alla perdita subita durante l’intervento, ed in assenza di
reintegrazione di liquidi, di terapia alcuna e di controllo medico, ha determinato il
progressivo scadimento delle complessive condizioni vitali del S. che, solo dopo un tempo
individuato attorno alle sei e trenta del mattino (ora fino alla quale è stata ritenuta la
possibilità di un intervento idoneo a salvare la vita del paziente) è divenuto irreversibile. Da
qui la corretta contestazione della cooperazione colposa con il medico di guardia e con il
personale infermieristico, i quali tutti hanno inserito una condotta parte, utile elemento ai
fini della determinazione dell’evento; né sembra del tutto peregrina la critica alla sentenza,
di qualche difensore, in sede di discussione, secondo cui non riesce comprensibile come
sia stata assolta la specializzanda dott L., rimasta nel turno notturno a presidiare il reparto
in relazione proprio ai compiti specifici del dott. D., presso il cui reparto la stessa svolgeva
la sua attività, la quale, informata dalla moglie del paziente del peggioramento delle
condizioni del marito, non si attivò personalmente con adeguate iniziative, nella sua qualità
di medico, non chiamò il medico di guardia, e nemmeno controllò il (non) normale
funzionamento della flebo e la (mancata) assunzione delle cure anche farmacologiche
prescritte dall’anestesista e dal suo stesso direttore al momento di rinviare il S. al reparto
di terapia intensiva.
Quanto alla impugnazione proposta dal D., pertanto- assorbita in quanto precedentemente
osservato ogni ulteriore considerazione critica formulata nell’interesse del ricorrente - il
ricorso dove essere ritenuto infondato in ogni sua parte, al limite della inammissibilità, e
deve essere pertanto integralmente rigettato.
Non diversa sorte può avere il ricorso del dottor G.
Deve infatti qui ricordarsi l’insegnamento di questa Corte, riferito innanzi in ordine alla
posizione del Dottor D., secondo il quale (vale la pena ricordarlo) gli operatori di una
struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti “ex lege” portatori di una posizione di
garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex articolo 2 e
32 Costituzione, nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia
pericolo che ne minacci l’integrità - l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del
turno di lavoro. (Cassazione penale, Sezione quarta, 9638/00, Troiano)
Egli ritorna a porre in discussione, con il suo ricorso, la causa mortis, a suo parere
imperscrutabile per la (certo assai colpevole) mancata esecuzione dei dovuto esame
autoptico sul cadavere
E tuttavia, come detto qui prima, in relazione alla posizione dei Dottor D., tale causa della
morte è stata individuata dalla Corte di merito in maniera dei tutto inequivoca e
categoricamente addossata alla responsabilità degli imputati, fra i quali spicca il ricorrente
per la totale sua assenza di controllo dovuto, a giudizio di questa Corte, nei termini e per le
previsioni normative indicate nella prima riferita pronuncia ad inizio di turno e poi durante
tutto il corso della notte. E ciò, indipendentemente dai suoi obblighi contrattuali.
Senza ritornare a valutate gli esiti peritali poiché questa Corte non deve effettuare
incursioni negli atti probatori, limitandosi solo ad esaminare gli atti impugnati e gli atti
d’impugnazione onde valutare la coerenza logica dei primi, e la capacità di questi a
resistere alla critiche di ricorso (Sezione Prima, 10 febbraio 2000, n. 94). basta osservare
che, proprio in applicazione dei principi costituzionali indicati dalla pronuncia n. 963812000
di questa Corte, ed in considerazione, dunque, della tenutezza dei medico, cui era affidato
il reparto, di previamente informarsi quanto meno delle situazioni di emergenza esistenti al
momento della sua assunzione di responsabilità e di garanzia (e certamente tale era
quella della persona offesa per le ripetute ragioni connesse alla delicatezza dei subito
intervento ed alla necessità di essere seguito con attenzione particolare nella delicatissima
fase post operatoria), il ricorso alla clausola contrattuale che avrebbe configurato il suo
obbligo di intervento su chiamata (e poi, chiamata da parte di chi, nel caso di specie?) è
dei tutto privo di rilievo, come la corte di merito ha ritenuto, pronunciando nei confronti di
costui sentenza di condanna per le ragioni ivi spiegate secondo convincente, ragionevole
e condivise motivazione.
A pag. 21 di sentenza, infatti, la Corte evidenzia come fu proprio a causa del notevole
intervallo di tempo trascorso fra la comparsa di quei sintomi che avrebbero Imposto, se
doverosamente rilevati, l’instaurazione di una idonea terapia, ed il momento
dell’irreversibile aggravamento verificatosi dopo le ore 6,30” che ebbe a verificarsi l’evento,
specie In considerazione dei fatto che l’essere il paziente affidato ad una struttura “di
altissimo livello operativo (istituto policattedra di terapia di urgenza dei Policlinico di Bari)”
avrebbe dovuto consentire che, praticati nei tempi congrui gli interventi farmacologici e
chirurgici appropriati, fosse evitato l’evento. E conclude: “non ricorre nel caso di specie. in
base all’evidenza disponibile, alcuna incertezza, alcun ragionevole dubbio sulla reale
efficacia condizionante dell’omissione degli imputati.”
Nel suddetto modo appare dunque integrata, e in termini di ipotesi controfattuale, e in
termini di 1ormula logica” (SS.UU. Franzese, 2002), la responsabilità, fra gli albi, anche
dei dottor G.
Né vale il ricorso agli obblighi contrattuali, attesa la posizione di garanzia specifica che
ogni medico (o paramedico) ha nei confronti dei pazienti a lui affidati, e che deve espletare
nel rispetto dei principi costituzionali di cui agli artt 2 e 32, così come già più volte
affermato da questa Suprema Corte (una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo
di solidarietà costituzionalmente imposto ex art 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la
cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; l’obbligo
di protezione perdura come già precisato per l’intero tempo dei turno di lavoro.
[Cassazione penale, sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano).
Qui, dunque, non è questione di obbligo contrattuale di natura privatistica (a
amministrativistica), ma dell’esser venuto meno, il dottor G., al pari degli altri, all’esatto
adempimento dei debito di garanzia dovuto nei confronti del S., mediante la condotta che
gli è stata contestata, e che è stata di poi accertata nei termini di cui in sentenza, esenti da
qualsiasi vizio logico, oltre che anche genericamente giuridico, in funzione di un iter
argomentativo dei tutto ragionevole e convincente.
Inammissibili sono poi le censure all’accertamento di fatto che i secondo Giudici hanno
ritenuto, a seguito della considerazione degli esiti peritali; e questo per le ragioni di cui
l’insegnamento costante e condiviso di questa stessa Corte, a mente dei quale nel giudizio
di legittimità non è deducibile il vizio di travisamento dei fatto inteso come ipotesi di
contrasto fra le argomentazioni dei contesto motivazionale e gli atti processuale, sicché il
controllo demandato alla Corte di Cassazione. non può esplicarsi in indagini extratestuali
dirette a verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove, costituenti i dati fondanti
della decisione, siano effettivamente corrispondono alle acquisizioni probatorie risultanti
dagli atti del processo (Sezione Prima, 10 febbraio 2000 n. 94). Né scusante è che gli
infermieri non abbiano mai richiesto, durante la notte, il suo intervento, essendo dovere
e scrupolo di un medico, cui è affidato un reparto (specialmente quando si tratti di una
unità dai compiti evidentemente di speciale delicatezza, quale quella di terapia intensiva in
questione) quello di prendere immediata visione, raccogliendo la posizione di garanzia che
gli viene trasferita al momento della sua presa in carico dei reparto, delle specifiche
situazioni degli ammalati, a partire dalle situazioni più delicate (e non se ne immagina una
più critica di quella presentata dal S., in fase immediatamente post operatoria a seguito
della storia chirurgica di cui in sentenza), e dunque assicurandosi della corretta
instaurazione delle terapie prescritte o ritenuta necessarie, seguendo di persona
l’evolversi della situazione fino al cessare della condizione di rischio.
Obbligo e scrupolo cui il dottor G. come affermato in sentenza è stato ben lontano dai
corrispondere.
Per quanto detto, ed assorbita ogni altra considerazione, la infondatezza dei ricorso
conduce alla declaratoria di rigetto dello stesso.
A non diversa soluzione deve pervenirsi a seguito dell’esame del motivo presentato
dalle infermiere P. e C.
Anche costoro hanno contestato l’addebitabilità di ogni responsabilità a loro, attesa la
incertezza in ordine alla causa mortis dei paziente, per la mancata perizia autoptica.
Tuttavia, l’accertamento svolto in sentenza sulla base delle perizie fondate sulla
ricostruzione storica del fatto, non consente alcuna rivisitazione del giudizio di fatto che,
per le ragioni qui prima dette e ripetute, non si presta a censure in ordine all’ordito
argomentativo dello specifico decisum.
Certo è che il S. è morto perché non solo non tempestivamente «ma mai, durante l’intero
arco della notte (quasi dodici ore dal suo rientro In reparto dopo l’intervento chirurgico, e
fino al momento In cui le sue condizioni fisiche sono irrimediabilmente precipitate) costoro
raccolsero, come era loro preciso dovere, le preoccupazioni reiteratamente ed in maniera
allarmata prospettate dalla moglie del paziente e dall’infermiera, amica di famiglia, che
insieme a costei trascorse quelle ore attendendo inutilmente che qualcuno comprendesse
ciò che a loro appariva e non vi era certo necessità di specifica competenza il gravissimo
evolversi della situazione.
La Corte ha sottolineato, attraverso il riferimento alle parole “tranquillanti” di costoro
(innanzi alla esposizione dei sintomi su cui è inutile tornare, tanto essi sono chiari anche al
di là di qualunque più elementare nozione di esperienza medica o paramedica) quale sia
stata la condizione di totale assenza di qualsiasi apporto venuto da detto personale, se
non l’aver fornito otto coperte per far fronte alla crisi ipotermica di una persona, il S. che si
stava totalmente dissanguando e disidratando, Nemmeno hanno avvertito lo scrupolo di
chiamare il dottor G. che intanto stazionava nella propria stanza, secondo contratto.
In particolare la P., con il suo ricorso, percorre criticamente la ricostruzione degli eventi
delle ore notturne, in chiave alternativa rispetto a quella di cui in sentenza. Ma ciò non è
consentito nella presente sede di legittimità, per la ben nota preclusione rispetto ad ogni
rivisitazione del merito (già qui prima evidenziata) a condizione che l’apparato
argomentativo non presenti incongruità, così come non ne presenta la sentenza
sottoposta dunque a non puntuale ed utile critica, per quanto fin qui evidenziato.
Altrettanto fa la C., sempre prendendo lo spunto dalla incertezza sulle cause della morte
del paziente (incertezza che la sentenza non manifesta), per denunciare quindi mancanza
di nesso causale, difetto di prova in ordine alla responsabilità, vizio di motivazione e
travisamento del fatto.
Ma, posto che sul nesso di causalità - anche con specifico riferimento alla posizione di
costei - la Corte di merito ha detto in maniera ineccepibile (e la “anonima correzione” -
meglio sarebbe parlare di falsificazione della cifra relativa alla quantità di urine contenute
nella sacca al momento del precipitoso ed inutile trasferimento del paziente al reparto
rianimazione, praticamente già privo di vita, è ulteriore prova della grave omissione posta
in essere dal personale infermieristico e del tentativo di “ripararvi” in chiave difensiva), ogni
altra alternativa lettura degli elementi probatori valutati (o anche non valutati perché
implicitamente ritenuti inconducenti) non può costituire argomento d’impugnazione in sede
di legittimità.
Anche tale ricorso, prevalentemente in fatto, non può trovare l’atteso riscontro censorio, e
deve rigettato anche a ragione della sua pressoché manifesta infondatezza.
Al rigetto dei ricorsi di tutti gli imputati segue la condanna di costoro, in solido, alle spese.
P.Q.M.
Visti gli articoli 615 e 616 Cpp, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al
pagamento delle spese processuali. Li condanna altresì al pagamento in solido delle
spese civili del giudizio di Cassazione in favore delle parti civili M. Anna Maria, S.
Pierpaolo e S. Caterina, liquidandole in complessivi euro 6.000,00 (comprese le spese).
Così deciso in Roma, 1° dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria oggi 11 marzo 2005.